Fiducia: Sicurezza e traquillità

Fiducia: Sicurezza e traquillità

fidùcia s. f. [dal lat. fiducia, der. di fidĕre «fidare, confidare»] (pl., raro, -cie). – 1. Atteggiamento, verso altri o verso sé stessi, che risulta da una valutazione positiva di fatti, circostanze, relazioni, per cui si confida nelle altrui o proprie possibilità, e che generalmente produce un sentimento di sicurezza e tranquillità

Ebbene sì, la fiducia produce un sentimento di sicurezza e tranquillità.

Mi è stato chiesto di scrivere un articolo, da pubblicare su questo notiziario, per descrivere un po’ la mia attività in qualità di medico ematologo.

Il tema di questa edizione è la fiducia e nessun tema sarebbe stato più adeguato di questo per raccontare un po’ la mia storia.

Sono Rossella Renso, ho 34 anni appena compiuti. Sono cresciuta in un piccolo paesino vicino a Domodossola, in Piemonte. Figlia unica, sono cresciuta riempita di amore e di attenzioni, senza però troppi vizi (credo). Mia nonna mi diceva sempre “fai il dottore Rossella, che è un bel lavoro” e la mia risposta è sempre stata “ma no nonna, non farò mai il dottore!”

E invece eccomi qui… Sei anni di medicina, 5 di specializzazione e poi due anni di lavoro da specialista, possibili grazie ad un contratto come medico libero-professionista finanziato dall’associazione Luce e Vita.

In questi anni di pazienti ne ho conosciuti, mi sono imbattuta in così tante storie e vite, sono entrata letteralmente nelle case della gente (mi sono occupata anche di assistenza domiciliare, prezioso progetto sostenuto sempre dall’Associazione). Ho lavorato, ho cercato di fare il mio meglio ogni giorno, per molte più ore al giorno rispetto a quanto richiesto dal contratto.

Non è facile avere a che fare ogni giorno con la malattia e con il dolore che ne consegue, con la fatica, con la sensazione di impotenza nelle situazioni più complesse, ma la fiducia non manca mai, non deve mancare. La fiducia verso il paziente e la sua forza, la fiducia verso la scienza e la sua potenza, la fiducia nel mondo e nel suo incedere perpetuo.

Negli ultimi difficili mesi è stata ripetuta più volte la frase “andrà tutto bene”. Non è detto che vada tutto bene, anzi, a volte va tutto male e fa molto male, ma confidando nelle proprie o altrui possibilità, si genera un sentimento di sicurezza e tranquillità, di Luce e di Vita.

Sfrutto questo articolo per ringraziare pubblicamente quindi l’Associazione, che ha letteralmente permesso a me e a molti miei colleghi prima di me, di fare il mio lavoro.

Un enorme grazie a tutti coloro che la sostengono e che ripongono in noi la loro fiducia… sperando che ne scaturisca davvero un sentimento di sicurezza e tranquillità, anche nelle ore più buie.

Dott.ssa Rossella Renso
Medico Ematologo

Siamo compagni di squadra

Siamo compagni di squadra

28 febbraio 2011: una data a me molto cara. Era infatti il 28 febbraio 2011 quando iniziai il mio percorso formativo e professionale presso il Reparto di Ematologia dell’Ospedale San Gerardo di Monza, diretto allora dal Professor Pogliani. In questi dieci anni ho avuto la possibilità – e la fortuna – di crescere non solo come professionista, ma soprattutto come persona, grazie al rapporto umano che questa professione mi ha consentito di instaurare con i pazienti e le loro famiglie.

Nel corso di questi anni ho compreso che il rapporto tra medico e paziente è da ritenersi punto cardine della professione medica: lo considero infatti l’ingrediente principale se non essenziale per il raggiungimento dell’obiettivo di cura che il medico e il paziente cercano di ottenere nel percorso diagnostico-terapeutico, in cui entrambi si vedono “compagni di squadra” per una competizione che deve vederli insieme vincitori. Come in una gara di staffetta, anche nel percorso di cura di una malattia ematologica risulta fondamentale il gioco di squadra, l’ottenimento cioè di una sintonia tra i giocatori sostenuta dal sentimento di reciproca fiducia.

Un medico può essere infatti un luminare nel proprio campo, sostenere presentazioni in congressi scientifici internazionali e fare tanto altro, ma se non è in grado di instaurare un rapporto di fiducia con le persone che deve assistere nel percorso di cura, allora non è da considerarsi affatto un bravo medico e non potrà che fallire nel suo lavoro. La fiducia consente infatti di comprendere e carpire nella loro interezza le richieste, le esigenze ma soprattutto le fragilità che una persona malata porta con sé. Spetta quindi al medico rompere quella barriera protettiva che il paziente si costruisce, per vulnerabilità, al momento della diagnosi di una malattia ematologica, quando la sicurezza e le certezze tendono a crollare d’improvviso. È ancora una volta compito del medico saper pertanto gestire le vulnerabilità del paziente, con un approccio d’accudimento genitoriale, possibile soltanto con l’istaurarsi del rapporto di fiducia.

La fiducia che i pazienti regalano a noi operatori sanitari va conquistata e soprattutto non va delusa. Ognuno di noi cerca infatti di non deludere i propri assistiti cercando di offrire loro il meglio di sé stessi e delle proprie competenze. Questo spinge molti di noi a fare scelte di vita e di professione con lo scopo di garantire un livello di assistenza della persona sempre più alto e completo, che non ometta mai il lato umano nel percorso di cura.

Ognuno di noi reagisce in modo diverso quando si prende cura delle persone che convivono con una malattia ematologica. Per quanto mi riguarda, la cura di queste malattie e il rapporto umano che ho instaurato nel corso degli anni con i miei pazienti mi ha spinto a cercare di offrire qualcosa di più a queste persone tramite la ricerca scientifica che si sviluppa in ambito laboratoristico.

Grazie al Professor Gambacorti-Passerini, nel 2019 ebbi la possibilità di prendermi “una pausa” dall’attività clinica perché ottenni una posizione lavorativa presso il Dipartimento di Patologia del Children’s Hospital/Dana Farber Cancer Institute di Boston (Massachusetts, USA), diretto dal Professor Chiarle. Ebbi l’occasione di lavorare su un progetto di immunoterapia applicata ai tumori, l’ormai nota CAR T cell therapy, dove una categoria di globuli bianchi viene geneticamente modificata in modo da poter aggredire selettivamente le cellule tumorali, evitando così la tossicità sugli organi sani del corpo umano che può invece subentrare in corso di trattamenti come la chemioterapia e la radioterapia.

Paradossalmente può sembrare che tramite questa esperienza mi sia allontanato dal letto dei pazienti, in un certo senso voltando loro le spalle. In realtà nei due anni di esperienza americana ho cercato di applicarmi all’attività di laboratorio focalizzandomi sul bisogno di cura dei pazienti, convinto che la ricerca sia il punto di partenza da cui possono nascere nuove speranze di terapia per le malattie ematologiche.

Nel secondo semestre del 2020, nel culmine dell’emergenza COVID-19, rientrai a Monza con l’impegno di riprendere l’attività clinica presso il Reparto di Ematologia Adulti dell’Ospedale San Gerardo, senza però abbandonare l’attività di ricerca imparata all’estero. Ebbi infatti la possibilità di avviare un mio progetto di ricerca presso l’Università Milano-Bicocca, nel laboratorio di Oncologia Molecolare del Professor Gambacorti-Passerini.

Al momento ricopro pertanto una posizione di medico ematologo presso l’équipe del Centro Trapianti di Midollo Osseo, occupandomi almeno una volta alla settimana della gestione ambulatoriale dei pazienti trapiantati, affiancando in questo modo i Colleghi Trapiantologi dalla pluriennale esperienza riconosciuta a livello nazionale e non solo. Il resto del tempo lo dedico quindi alla ricerca di laboratorio, in particolare ad un nuovo progetto di immunoterapia, sempre volto a potenziare il sistema immunitario del paziente nei confronti della malattia ematologica.

Nello specifico, stiamo cercando di studiare in provetta un modo di potenziare l’attività dei macrofagi del paziente ematologico. I macrofagi sono quelle cellule del nostro corpo capaci di mangiare i prodotti di scarto presenti nel nostro organismo, così come i batteri, le cellule infettate da virus e le cellule tumorali maligne.

Nel paziente con malattia onco-ematologica, accade che questi macrofagi subiscano un’influenza negativa da parte delle cellule tumorali maligne, che inibiscono/riducono l’attività dei macrofagi, rendendoli “pigri” e non più “affamati”, perdendo così lo stimolo di mangiare e distruggere le cellule tumorali, che continuano invece a crescere e proliferare.

Però, abbiamo da poco scoperto che l’aggiunta di un anticorpo diretto contro un antigene del tumore (ovvero un’antenna espressa dalle cellule tumorali sulla loro superficie) è in grado di abbattere il segnale di inibizione dell’attività dei macrofagi, ripristinando così l’attività di fagocitosi e di distruzione delle cellule tumorali, che vengono finalmente mangiate ed eliminate dai macrofagi. Questi dati preliminari ottenuti in laboratorio sono risultati incoraggianti soprattutto per un sottotipo di linfoma non Hodgkin, il che ci spinge a continuare tali esperimenti ed estendere la sperimentazione anche su modello animale, con la speranza di raggiungere nei prossimi anni l’applicazione in ambito clinico.

Questo intreccio di attività lavorative – apparentemente diverse tra loro ma in realtà strettamente interconnesse – è reso possibile grazie al fondamentale sostegno dell’Associazione Luce e Vita che mi permette di svolgere l’attività clinica, integrandola così con quella di laboratorio. Su tale equilibrio si basa la cosiddetta medicina traslazionale, dove il medico che opera in laboratorio cerca di concretizzare le scoperte fatte e di trasferirle in ospedale sottoforma di nuove medicine, al fine di offrire nuove speranze di cura agli assistiti.

Nel contesto di questo equilibrio qui delineato tra ricerca e clinica, la fiducia tra medico e paziente viene messa nuovamente in risalto, occupando una posizione di rilievo e ponendosi come primum movens, ovvero motore degli ingranaggi di un sistema che vede scienza e clinica lavorare di concerto, per il bene ultimo del paziente.

Con la speranza di non deludere nessuno dei nostri assistiti, ringrazio l’Associazione Luce e Vita e tutti i pazienti e le loro famiglie della fiducia regalata ogni giorno alla nostra Unità Operativa: senza tale sostegno sarebbe tutto immensamente più difficile. Grazie di cuore.

Dr. Andrea Aroldi
Medico Ematologo ASST Monza

FIDUCIA: L’ INIZIO DI UNA RELAZIONE CHE CURA

Fiducia: l’inizio di una relazione che cura

“In principio è la relazione”

(Martin Buber)

Ringrazio l’Associazione per l’opportunità di poter scrivere a riguardo del tema della Fiducia all’interno del lavoro psicologico. Ho accolto con piacere questa richiesta perché credo che la fiducia rappresenti l’atteggiamento interiore che sta alla base dell’inizio di una qualsiasi relazione, specie se di carattere terapeutico. In questo caso, la fiducia è sicuramente uno dei punti di partenza per l’instaurarsi di una “buona alleanza di lavoro” tra paziente, familiari e curanti. Fattore capace di trasformare realmente la relazione d’aiuto in una relazione di cura, di effettivo sostegno nel momento critico correlato alla diagnosi e all’inizio delle terapie.

Il tema, per altro, mi riguarda in prima persona in quanto riconosco la fiducia che è stata riposta in me dall’Associazione Luce e Vita nel momento in cui mi è stato chiesto di sostituire la Dott.ssa Katia Amodio durante il suo periodo di maternità. Da luglio 2021, infatti, mi occupo di sostenere psicologicamente i famigliari dei pazienti della clinica Ematologica Adulti dell’Ospedale San Gerardo ASST Monza e questa esperienza mi sta permettendo di cogliere la centralità stessa del tema.

Mi risulta sempre più evidente quanto la fiducia rappresenti l’elemento basilare di ogni incontro psicologico, al fine di costruire una solida matrice di accoglimento, ascolto e di rielaborazione dei vissuti provati dai familiari durante l’esperienza traumatica della malattia dei loro cari. Il tema stesso della fiducia risuona con quanto compiuto da ciascuno di loro nell’atto di dover delegare la cura sanitaria dei propri cari all’équipe onco-ematologica (aspetto maggiormente presente nei colloqui con famigliari di pazienti seguiti in regime di ricovero ospedaliero, in Centro Trapianti o in Reparto).
La fiducia nei curanti è dunque il primo passo da compiere verso la guarigione, base sicura per ogni percorso di cura.

Il bisogno di affidarsi può presentarsi in molte fasi della vita di ognuno, specialmente quando non ci si sente in grado di affrontare da soli la moltitudine di sfide che la vita presenta. La fiducia verso l’Altro è un sistema che fa parte della natura umana, poiché necessario alla sopravvivenza ed ha origini molto antiche. Alla nascita ogni neonato si trova immerso in una realtà molto complessa che non è in grado di decodificare da solo. Nasce, così, il bisogno di affidarsi ai propri simili e, conseguentemente, nasce la capacità di fidarsi dell’Altro.

Tutto ciò riaccade durante una prima esperienza di presa in carico onco-ematologica. La comunicazione di diagnosi, e la conseguente attivazione di protocolli terapeutici, apre un mondo nuovo, spesso traumatizzante o angosciante, in cui, sia nel ruolo di paziente che in quello di familiare, ci si ritrova spesso sprovvisti di esperienze precedenti, punti di riferimento e conoscenze adattive. Ci si sente spaesati, spesso spaventati, con la conseguente necessità di doversi necessariamente affidare all’equipe multidisciplinare, così che si possano attivare tutta una serie di risposte o servizi volti alla presa in carico di ciascun bisogno di cura (sanitario, psicologico, sociale, fisioterapico, etc.). L’esperienza di poter essere compresi e ben curati genera poi un senso di sicurezza e fiducia per il proseguo delle cure, la possibilità di intravvedere il superamento del trauma e di poter fare rientro nel proprio stile sano e routinario di vita.

Questo è quanto accade anche all’interno della relazione psicologica supportiva tra paziente/familiare e psicologo. Allo stesso modo, infatti, la presa in carico psicologica fornisce via via “un luogo e un tempo sicuri” in cui il paziente e i suoi familiari possano sentirsi sostenuti nell’attraversare i cambiamenti che avvengono durante le diverse fasi della terapia (inizio cure; possibili ricoveri in reparto o in CTA; ripresa psicofisica a fine terapia; gradualità di reinserimento dentro stili di vita liberi da impegni sanitari; etc.).

In questi mesi ho avuto la possibilità di incontrare molte persone, diverse tra di loro, ma accumunate dal bisogno di cercare un proprio spazio di rielaborazione e confronto con se stessi.

Utilizzo volutamente la parola “incontro”, poiché è proprio dall’unione delle nostre reciproche disponibilità che prende vita e si co-costruisce quel profondo senso di fiducia che risulta poi necessario per lavorare insieme. Guardare insieme le cose che fanno male ed anche quelle che possono contribuire alla ricerca del bene, dando voce ai bisogni, alle paure ma anche riconoscendo le risorse interne ed esterne a se stessi, tutto ciò che può aiutare a riequilibrare, donare vigore, forza, coraggio, senso di direzione.  Sempre più mi accorgo, quanto l’empatia, accompagnata da specifiche competenze tecniche e professionali, aiuti a comprendere il mondo di affetti, sentimenti, speranze, paure e sogni che ciascuno trattiene dentro di sé. Quell’incontro sicuro ed autentico tra paziente/familiare e psicologo, dove la professionalità di quest’ultimo deve proiettarsi nel saper ascoltare, accogliere e sintonizzarsi con quanto l’altro dice e non dice, con quanto esprime con le parole e quanto trasmette con le azioni, con i propri comportamenti o attraverso le proprie rinunce, assenze, silenzi ed omissioni.

Spesso il dolore necessita infatti di strade alternative, parole che non si sanno pronunciare o che non trovano suoni, significati convenzionali, codici per spiegare ciò che il proprio cuore con coraggio regge dentro di sé. La fiducia è dunque nutritiva e basilare. Permette quel contatto profondo, all’interno del quale, viene favorita l’espressione delle proprie emozioni, in un’atmosfera di sostegno dove è presente un genuino e vivo interesse per l’esperienza attraversata. Con un comune obiettivo, quello di poter raggiungere gradualmente un maggiore benessere intrapsichico ed interpersonale, risanando le proprie ferite ed acquisendo consapevolezza di sé, dei propri cambiamenti, di quanto si sia stati capaci di rafforzarsi dentro una delle esperienze di vita più provanti, per sé e per la propria famiglia. Ed è per questo che ho trovato opportuno iniziare “da qui”, dentro un ruolo professionale che crei complicità d’intenti e vicinanza, per il tempo che sarà necessario ed oltre, ciascuno dentro i propri ricordi, esperienze di cura anche emotiva, pensieri scoperti con fiducia, insieme, e che hanno aiutato reciprocamente a crescere.

Dott.ssa Martina Ladislao
Psicologa Psicoterapeuta Associazione Luce e Vita